Durante i tempi duri della Gran Bretagna pre-rock, Brian May ascese a co-pilota di uno dei gruppi più stravaganti di tutti i tempi.
"Ci siamo sacrificati al dio dell'eccesso", dice il guitar hero dei Queen. "E ci siamo fatti del male".
Intervista di Paul Elliott - Traduzione di Barbara Mucci
Alla periferia di una tranquilla cittadina del Surrey, su una stradina costeggiata da ville, si trova una casa che ospita il quartier generale della London Stereoscopic Company. È presente, in questo soleggiato pomeriggio di tarda primavera, il direttore della società, il Dr. Brian May. La residenza privata del chitarrista dei Queen è qui vicino, nascosta da una cancellata e da una fitta boscaglia. Ma in questa casa un po’ più modesta si trovano i risultati della sua pluriennale ossessione con le fotografie in 3-D. In una stanza, impilati uno sopra l’altro, si trovano tanti scatoloni con su il marchio della sua compagnia. Nel salotto dove May incontra MOJO, si trovano macchine fotografiche antiche ed una copia del suo nuovo libro, Queen in 3-D, in cui compaiono centinaia di fotografie inedite da lui stesso scattate con una macchina fotografica stereoscopica nel corso della sua carriera all’interno della band.
May compirà 70 anni il prossimo 19 Luglio, e gli anni sono stati clementi con lui. Il suo viso leggermente abbronzato ha un bel colorito sano, e la sua chioma riccioluta, sebbene ingrigita, è rimasta immutata sin dagli albori dei Queen. Denis Pellerin, di origini francesi ed esperto di stereoscopia, ed essenziale nel suo ruolo di ricercatore per Queen in 3-D, gli porta un tè con latte di soia e May sfoglia il libro per cercare la sua foto preferita, scattata agli inizi degli anni ’70 al cantante del gruppo, Freddie Mercury. Qui, Mercury si applica del make-up prima di uno show, perso nei suoi pensieri, un giovane uomo sul punto di sfondare. 26 anni dopo la morte del cantante, questo ritratto significa molto per May, memento dei giorni in cui i quattro membri dei Queen sognavano ancora di conquistare il mondo. “Adoro questa foto”, dice lui con voce dolce. “Racchiude tutta la magia”.
Ciò che i Queen hanno ottenuto con Mercury è stato un successo di proporzioni monumentali. La vendita a livello mondiale di oltre 200 milioni di dischi pone i Queen al livello dei Rolling Stones e degli Abba. Solo tre gruppi hanno venduto più di loro: i Beatles, i Led Zeppelin e i Pink Floyd. Nel Regno Unito, il loro Greatest Hits è l’album che ha venduto di più in assoluto, con 6 milioni di copie, un milione in più del Sgt. Pepper. E ciò che ha reso i Queen unici tra i maggiori gruppi rock esistenti è che tutti e quattro i membri hanno scritto delle hit da numero 1, tra cui Bohemian Rhapsody di Mercury, Another One Bites The Dust del bassista John Deacon, Radio Ga Ga del batterista Roger Taylor, e Flash di May.
 
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Negli anni trascorsi dalla morte di Mercury e dal ritiro di Deacon, May e Taylor hanno continuato la carriera con due “versioni” dei Queen: prima con l’ex componente dei Free e dei Bad Company, Paul Rodgers; ed ora con l’ex partecipante di American Idol, Adam Lambert.

May ammette che sente il passare del tempo – “Ogni giorno ti svegli con un doloretto nuovo e ti chiedi da dove provenga” – ma tornerà presto in pista, con uno show dei Queen a Toronto proprio il giorno del suo 70° compleanno. “Abbiamo lavorato duramente tutti quanti per creare questa musica meravigliosa”, dice. “Manteniamola viva”.

È stata un’esperienza emozionale scavare nel tuo passato, mentre scrivevi Queen in 3-D?

Sì, è stato un vero viaggio di riscoperta, per me. È stato sorprendente, perché queste immagini sono dolorosamente evocative viste in 3-D. È come se potessi entrare lì dentro, e toccare queste persone per come erano allora.

Insieme a queste immagini, vi è il tuo resoconto scritto sulla storia della band, un memoir a tutti gli effetti.

È quasi una biografia ma non del tutto, perché sono piuttosto istantanee che una narrazione completa e collegata. Ho cercato di essere molto aperto. Parlo di eventi, ma anche di come mi sentivo quando questi eventi si sono verificati. E con questo, mi sono reso conto di quanto fossimo fortunati. Mi rendo conto che è una vita un po’ insolita da vivere.

Qual è stata la musica che per prima ha acceso in te il sacro fuoco quand’eri giovane?

Riesco a ricordare un periodo precedente a Buddy Holly ed Elvis, quando la musica era molto più tranquilla, la musica che apparteneva alla generazione dei miei genitori. Johnnie Ray, Frank Sinatra e Bing Crosby erano tutti dei magnifici cantanti, ma non urlavano, non aprivano il loro cuore. Era rock and roll – un’allogamia tra bianco e nero – ed era come scoprire le carte. Ricordo che quando avevo circa 10 anni, mi mettevo sotto le coperte, facendo finta di dormire, con la mia radio a galena e le cuffie, ed ascoltavo Little Richard, ed era… oh, era davvero qualcosa di nuovo, assolutamente, sorprendentemente e incredibilmente diverso da qualsiasi altra cosa.

Come ti faceva sentire quella musica?

Ho pensato: “Questo mi rappresenta. È espressione di ciò che sento e non so neanche cos’è”. Ed ovviamente c’era la chitarra, che stava diventando uno degli strumenti principali a quei tempi – un’altra voce ruggente. Ecco cosa quella musica ha fatto per me.

Nei primi anni ’60, con l’aiuto di tuo padre, Harold, hai costruito la tua chitarra, in parte con un pezzo di un antico caminetto, e l’hai chiamata Red Special. Quanto del tuo sound attribuisci a lei?

Abbastanza, e in parte deriva dal suo design e in parte è stato un colpo di fortuna. Aggiungere delle tasche acustiche per sostenere il sound fu un’idea innovativa a quei tempi, perché le prime chitarre elettriche non erano pensate per il feedback. Ma nel corso degli anni ho avuto modo di notare che gran parte del sound di un chitarrista viene dal corpo e dalle dita, non dalla chitarra. Una volta ho lavorato con Hank Marvin, che era ed è tuttora uno dei miei eroi, e quando ha preso in mano la mia chitarra mi sono chiesto che suono avrebbe prodotto. Bhè, suonava proprio alla Hank Marvin! Non sono uno dei massimi esperti di tecnica al mondo. Non sono Eddie Van Halen. Il modo in cui suono… riesco a smettere di pensare e lasciare che le mie dita esprimano ciò che mi passa per la testa. Come se potessi parlare attraverso la mia chitarra.

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Hai detto che la tua famiglia era povera durante la tua infanzia nel sobborgo londinese di Hampton.

Erano tempi duri. Non era un’illusione. Ma per mio padre era motivo di orgoglio riuscire a provvedere a noi, ed a lui stava molto a cuore il fatto che io avessi accesso a tutto il meglio che la vita avesse da offrirmi. E lui era convinto che tutto ciò derivasse da una buona educazione scolastica.

Com’eri da bambino?

Ero un ragazzino abbastanza insicuro, molto emotivo, e molto ansioso per ottenere risultati accademici, cosa che nella mia scuola era piuttosto impopolare. Sono stato bullizzato, ma ho sempre trovato il modo di dire la mia. Questo mi ha insegnato ad essere un buon negoziatore.

Da ragazzo, dopo aver scoperto la fotografia 3-D attraverso una promozione Weetabix (nota marca di cereali, NdT), hai creato la tua compagnia stereoscopica a socio unico, la See-Throo Productions. Un segno precoce delle tue ambizioni circa la costruzione di un impero?

Suppongo di sì. Avevo questa urgenza di creare qualcosa, il mio piccolo mondo, in scala ridotta. Ma c’era sempre l’intenzione di metter su una band. La prima degna di nota furono i 1984, ispirati dal racconto di George Orwell. Abbiamo fatto dei concerti, per un compenso davvero irrisorio. “Semi-professionali” venivamo chiamati a quei tempi.

Dopo aver studiato all’Imperial College di Londra ed esserti laureato in Fisica, hai voltato le spalle alla scienza e ti sei focalizzato sulla musica.

Il mio caro papà ne fu estremamente contrariato. Non mi ha parlato per tanto tempo. Secondo lui, avevo compiuto due azioni imperdonabili. La prima, di abbandonare gli studi, e lui aveva in un certo senso trascurato parte della sua vita per permettermi di averne una. La seconda è stato vivere con una donna senza essere sposato con lei, cosa che era totalmente contraria al suo codice morale. Per lui, era impossibile approvare il mio comportamento. È stato un periodo molto difficile.

Nel 1968, hai formato gli Smile, di cui era membro anche Roger Taylor. Ma non fu un successo.

Sembrava come se ci fosse un muro invalicabile tra noi e le band che invece riuscivano a sfondare. Ci sentivamo impotenti. Poi arriva questo tizio che si prende la briga di farci da manager, con il sigaro e la puzza di successo. Fu un completo disastro. Ma credo che abbiamo avuto le prime avvisaglie di quella grande fiducia che nutrivamo in noi stessi, Roger ed io.

Freddie Mercury era un grande fan degli Smile, e quando vi scioglieste, nacquero i Queen, con Freddie come cantante. John Deacon si unì a voi nel 1971. Nel libro tu scrivi: “Decidemmo, precocemente, che avremmo cambiato il mondo”. È proprio così?

(Ridendo) Ovviamente! Ci dicevamo “possiamo fare le cose meglio di chiunque altro”. Eravamo follemente ottimisti. Ma al di sotto della superficie, vi erano strati di insicurezza.

Quali furono le tue prime impressioni su Freddie?

Freddie era estremamente sicuro di sé. Anche a quei tempi era convinto di essere una rock star. Non era come se stesse per diventare una star – lui lo era già. Era tutto nel suo portamento, il linguaggio del corpo e l’aspetto. Ma sotto tutto questo, Freddie era molto timido ed insicuro. Come tutti noi – specialmente io. Essere un performer era un modo per venire a patto con le tue insicurezze.

Agli inizi della carriera con i Queen, in tempi che erano decisamente meno aperti di oggi, avevate una “versione ufficiale” riguardo la sessualità di Freddie?

No, non ce l’avevamo. Non c’era nulla di scritto, ma lo sapevamo. Non ne abbiamo mai discusso apertamente. Voglio dire, all’inizio credo che neanche Freddie fosse conscio della sua sessualità. Durante i primissimi tour, è capitato di dividere la stanza con Freddie, quindi sapevo perfettamente cosa combinava, e senza rivelare eventuali confidenze, non era per niente ovvio (ride)!

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Il vostro album di debutto, Queen (Qui per approfondire cosa si nasconde dietro la copertina del primo album), ha raggiunto la posizione 24 nelle classifiche inglesi nel 1973. Queen II e Sheer Heart Attack sono arrivati alla Top 5. Poi è arrivato A Night At The Opera, il primo album numero 1 della band, nel 1975, con Bohemian Rhapsody che ha raggiunto la prima posizione nella classifica dei singoli. Ricordi il momento in cui Freddie vi ha proposto la canzone per la prima volta?

Ne aveva già scritto buona parte. Su foglietti presi da un bloc-notes di suo padre, lui vi aveva scritto delle note, LA diesis, SI diesis, DO diesis. Queste erano le nostre forme abbreviate. Non tenevamo traccia di niente. Aveva già pronta la maggior parte del testo ed aveva già in mente il quadro generale, assolutamente.

Avevate un qualche sentore, ai tempi, che questo potesse essere il capolavoro di Freddie?

In realtà, no. Avevamo già canzoni come My Fairy King e The March Of The Black Queen, che erano altrettanto complesse. Pensavamo che Bohemian Rhapsody fosse grande – una canzone straordinaria – ma non ritenevamo che fosse il suo capolavoro. Non gli chiedemmo nemmeno cosa significasse il testo, e lui non ce l’ha mai rivelato. Tutti abbiamo le nostre idee, ma adoro il fatto che lui non abbia mai specificato di cosa parlasse la canzone, cosicché ognuno poteva farsi una sua opinione.

Quanto grande è stato l’apporto della band nella creazione del brano finito?

Alla fine, era la canzone di Freddie, ma è diventata, come ogni cosa, un’esperienza creativa condivisa. Tutti pensano che quei riff di chitarra – dang-dang-dang-dang, alla Wayne’s World – siano farina del mio sacco, ma furono opera di Freddie. Quando ci ha suonato quei riff, che sono davvero difficili da riprodurre al pianoforte, le sue dita battevano come martelli e si muovevano molto velocemente. Freddie ha creato la maggior parte dei riff più pesanti, come quello di Ogre Battle (da Queen II).

Quindi, è sbagliato pensare che quello con l’anima rock all’interno del gruppo fossi tu?

Bhè, per gran parte è vero. Ma sareste tutti sorpresi dallo scoprire da dove possono arrivare le diverse idee.

Nonostante tutto quello che avete ottenuto con A Night At The Opera, nel libro descrivi la realizzazione dell’album come “un periodo difficile per me”, durante il quale hai sofferto di depressione.

Fu un periodo molto teso. Certo, ci divertivamo, ma c’era un forte accumulo di conflitti, perché ognuno di noi aveva una visione diversa di dove la band stava andando. Eravamo come quattro diversi artisti che cercavano di dipingere sulla stessa tela. Non era una bella situazione. Prima di tutto, combatti per avere un tuo pezzo nell’album, poi combatti per averla come dici tu. Tuttavia, sei ben conscio del fatto che il brano svilupperà il suo massimo potenziale solo quando vi contribuirà tutta la band. Devi quindi accettare che la tua canzone venga fatta a pezzi per raggiungere la sua forma finale – un processo spaventoso – e sì, a volte mi sono sentito depresso, come penso sia successo ad ognuno di noi. Di quando in quando capita che ti senti messo da parte, ed è una delle peggiori sensazioni che tu possa provare, quella di sentirti non ascoltato.

Avresti rinunciato ai conflitti?

Occasionalmente si urlava un po’. Il più delle volte puntavo i piedi ed ero abbastanza duro su alcune cose. Sono una persona abbastanza ostinata.

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Hai fatto pace con tuo padre nel 1978 dopo che lui ha assistito ad un vostro concerto al Madison Square Garden di New York.

Sì, ho fatto volare i miei genitori su un Concorde e li ho sistemati all’Hotel Plaza. Ho detto loro: “Ordinate il servizio in camera, siamo ricchi!”. Cosa che invece non eravamo. Poi, dopo aver assistito allo show, mio padre ha detto: “Ok, ora ho capito”. La verità è che aveva passato una cosa molto simile. Lui era un grande pianista, ma ha dovuto cercarsi un lavoro più adatto per provvedere alle esigenze della famiglia. Così mi disse: “Tu stai facendo proprio quello che io ho sempre voluto fare, e forse è per questo che per me è così difficile da accettare”. Fu una grande svolta per noi. È inutile negarlo, noi figli cerchiamo sempre l’approvazione dei nostri genitori, e se non la otteniamo, è una cosa difficile da portarsi dentro.

Fu in questo periodo che Freddie adottò quella che tu chiami “l’immagine classica dell’icona gay”. Nel frattempo, stava portando avanti un’interpretazione eterosessuale assai convincente della tua Fat Bottomed Girls.

Ah, ma c’è molto più di questo. A prima vista, è una canzone eterosessuale perché intitolata Fat Bottomed Girls, ma ero perfettamente consapevole delle inclinazioni di Freddie e del fatto che avrebbe cantato quella canzone. In più, molta dell’ispirazione per la canzone veniva dalle cose che avevo visto nella vita di Freddie tanto quanto nella mia. Quindi, non è poi una canzone così tanto eterosessuale se ci pensi (ride). È piuttosto una canzone pansessuale. La puoi intendere in tanti modi.

Il primo LP degli anni ’80 dei Queen, The Game, vi ha visti prendere una direzione più semplice grazie a due hit da numero 1, Crazy Little Thing Called Love (leggi QUI come è nata) dal sapore un po’ retrò e la funky Another One Bites The Dust, ispirata dal vostro frequentare la discoteca Sugar Shack di Monaco.

Fu quando ci rendemmo conto degli spazi nella musica. Ci accorgemmo che la potenza veniva dal togliere piuttosto che dal riempire.

Ricordi questo come un periodo di edonismo…

Oh sì. A Monaco stavamo sprofondando. In un certo senso, abbiamo perso completamente la testa. Consapevolmente o inconsapevolmente, ci siamo sacrificati al dio dell’eccesso, e ci siamo fatti del male. Monaco è meravigliosa, ma è un posto dove puoi lasciarti andare alle tue fantasie. E a volte può essere pericoloso.

C’è una percezione generale di Freddie e Roger come i due playboy della band, mentre tu e John Deacon venite percepiti come meno inclini ad un’eccessiva indulgenza. È semplificare troppo?

C’è della verità in questa affermazione. Freddie e Roger erano i pavoni, mentre John ed io eravamo un po’ diversi, sicuramente non lo stereotipo della rockstar, nessuno di noi due.

Hai detto di Freddie: “Lui recitava una parte, ed alla fine questa parte è diventata la sua vita”.

Sì. Freddie si è costruito un personaggio e vi è entrato dentro. Era davvero un uomo che si è fatto da solo. All’inizio, era un superbo performer, ma aveva ancora poco controllo sulla sua voce. Questo controllo arrivò quando lui iniziò a riascoltarsi in studio, e divenne estremamente auto-critico. Possedeva questo dono – non c’è alcun dubbio su questo. Ma scoprire come usare la sua voce è stato un percorso per lui. Rimango ancora scioccato quando risento la sua voce su un disco.

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Hot Space del 1982 vi ha alienato parecchi fans con le sue forti influenze disco, sebbene Michael Jackson abbia dichiarato che Thriller sia stato ispirato dal vostro album.

Frequentavamo spesso Michael. Lui e Freddie andavano molto d’accordo, e passarono del tempo a buttar giù delle idee, compresa State Of Shock, che poi Michael incise con Mick Jagger. Michael veniva percepito come cantante pop o R&B, ma dentro di lui si sentiva una rockstar. Adorava il rock. Te ne puoi accorgere dal fatto che volle Eddie Van Halen e Slash a suonare nei suoi dischi. Michael si stava avvicinando a questa fusione – il funk incontra il rock – da una direzione, e noi ci stavamo avvicinando da un’altra direzione. Ma tante persone hanno detestato Hot Space. E molte altre l’hanno adorato. Altri ancora hanno pensato che avessimo tradito un principio.

Il successo più grande di Hot Space è stato Under Pressure, la vostra collaborazione con David Bowie. Hai descritto la nascita di questa canzone come una “battaglia tra gli ego”.

Non è stato semplice, perché eravamo tutti dei ragazzi molto precoci, e David era davvero… energico, sì. Freddie e David si scornavano, senza dubbio. Ma queste sono cose che accadono normalmente in uno studio, quando volano le scintille. Ecco perché è venuta così bene.

Come si scornavano Freddie e Bowie?

In un modo molto sottile, tipo chi di loro sarebbe arrivato più tardi in studio. Era un qualcosa di meraviglioso e terribile allo stesso tempo. Ma nella mia mente tornano più i ricordi belli che quelli brutti. E non tutto ciò che abbiamo fatto in quelle sessioni ha mai visto la luce, e può essere un’idea…

La band è mai arrivata a sciogliersi mentre Freddie era ancora in vita?

Oh, era un lasciarsi in continuazione! Ogni volta che facevamo un album sembrava dovessimo scioglierci, a causa della solita questione “chi siamo e dove stiamo andando”. Ognuno di noi ha lasciato la band ad un certo punto, e non una sola volta – per tutto il tempo. Ma siamo sempre tornati. Non c’erano mai incomprensioni di natura personale. Riguardava solo la musica, perché era una cosa a cui tenevamo tutti. E credo fosse salutare – doloroso, ma salutare.

13 Luglio 1985. Live Aid allo Stadio di Wembley. Avete suonato meglio di chiunque altro, condensando 6 canzoni all’interno dei vostri 20 minuti di esibizione.

Avevamo chiaro in mente le direttive dateci da Bob (Geldof, NdA), ossia: “E’ come un jukebox globale, non fate i furbi, suonate le hit”. Ed è esattamente ciò che abbiamo fatto. Abbiamo rielaborato le canzoni in una maniera leggermente compressa in modo che potessero rientrare nel tempo concesso.

Avevate sentore che avreste rubato la scena a tutti?

Oh no. Il momento in cui salimmo sul palco era un misto di eccitazione e terrore. Fu un’esperienza insolita fin dall’inizio, non semplicemente un concerto rock. Tutti erano lì per Bob e per la causa – le persone affamate. E l’evento fu sold out prima che fosse annunciata anche la nostra presenza. Sapevamo che non era il nostro pubblico, così, quando salimmo sul palco, l’adrenalina in circolo era ai massimi livelli. E tutto si è trasformato in un’esperienza gloriosa.

È stato questo il momento più grande di Freddie?

Lo è stato, sì. Freddie si è dimostrato all’altezza. Egli era già padrone dell’arte di intrattenere un pubblico da stadio. E quando abbiamo fatto Radio Ga Ga e tutto il pubblico ha eseguito la coreografia, ricordo di aver avuto la pelle d’oca. La stessa cosa è successa per We Will Rock You, ed alla fine, quando tutti hanno cantato We Are The Champions.

In quei 20 minuti, i Queen divennero i più grandi di tutti.

Credo che in quel momento diventammo “globali” senza neanche rendercene conto.

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Dopo il Live Aid, A Kind Of Magic, album del 1986, è stato un grande successo, ed il Magic Tour vi ha portato negli stadi di tutto il mondo. Sfortunatamente, è stato l’ultimo tour prima che Freddie morisse all’età di 45 anni, il 24 Novembre 1991. Nel libro, rifletti sul fatto che è stata una fatalità per Freddie morire a causa di una complicanza dovuta all’AIDS prima che i trattamenti che avrebbero potuto salvarlo potessero essere resi disponibili.

Purtroppo è andata così. Non puoi realmente parlare di cosa sarebbe successo, perché non è successo.

Quando morì, sentivi di dover abbandonare la musica?

Il lutto è una cosa complicata. Provi ogni tipo di emozione, anche le meno appropriate. Prima di tutto, Roger ed io abbiamo effettivamente lasciato perdere tutto. Siamo letteralmente scappati. Era come “Sì, abbiamo fatto parte dei Queen, ma ora dobbiamo vivere la seconda parte della nostra vita”. Così, abbiamo iniziato a concentrarci sulla carriera solista. Ho fatto due lunghi tour in giro per il mondo, e quando ho rilasciato interviste dopo la morte di Freddie non volevo parlare dei Queen. Ero lì, e facevo finta che non fosse mai successo.

Prima dei tuoi tour da solista, c’è stato il Freddie Mercury Tribute Concert of AIDS Awarness il 20 Aprile 1992 allo Stadio di Wembley. Tra gli artisti che si sono esibiti con i Queen c’erano Bowie, Elton John, Robert Plant, Annie Lennox, Axl Rose e – tra le preferite di Freddie – Liza Minnelli. E così come Freddie rubò la scena al Live Aid, George Michael fece la stessa cosa quella notte quando cantò Somebody To Love.

George è stato fantastico. Ricordo che sentivo la sua voce esplodere sui nostri monitor, e si avvicinava così tanto alla voce di Freddie. Un sacco di persone hanno detto che avremmo dovuto prendere George come cantante per la band dopo la sua esibizione, ma non avrebbe mai funzionato. George stava andando in un’altra direzione, completamente differente.

George ha cantato anche un’altra canzone, quella sera, la tua ’39, da A Night At The Opera.

Volle eseguirla perché da ragazzo la cantava nelle stazioni della metropolitana. Quindi cantarla in uno stadio pieno di gente è stato come chiudere un cerchio. Sai, è strano stare seduti qui e parlare di queste persone che ci hanno così prematuramente lasciato. Non avrei mai immaginato che avremmo perso George così presto. È stato uno shock. Era un ragazzo fantastico.

Ci sono state diverse contestazioni circa l’apparizione dei Guns N’Roses al Tribute, con gli attivisti gay scandalizzati dalle connotazioni omofobiche della canzone del 1988 di Axl Rose, One In A Million. È stato, questo, un argomento che avete affrontato con Axl?

Questa era un’altra di quelle regole non scritte. Avevo una buona intesa con Axl, quindi in un certo senso la questione non venne mai sollevata. Quando abbiamo chiesto ai Guns N’Roses di partecipare, non c’era alcun dubbio sul fatto che erano giusti per lo spettacolo e che sarebbe andato tutto bene, e così è stato. Axl sapeva che credevo in lui al 1000%, ma credo che a quei tempi persino lui trovava difficile lavorare con se stesso. Era così imprevedibile, ma non era una cosa che faceva di proposito. A causa della sua chimica mentale, camminava sul filo del rasoio.

Quella notte, Axl ed Elton eseguirono un duetto su Bohemian Rhapsody e sul finale si sono abbracciati. Hai visto un potente simbolismo in questo gesto?

Assolutamente. Credo abbia avuto un certo effetto su Axl. Ha avuto un grande effetto su tutti noi. Ed ha avuto effetto su tutto il mondo, vedere lui ed Elton comportarsi in quel modo.

Hai parlato di scappare dai Queen in seguito alla morte di Freddie, ma nel 1995 avete portato alla luce l’ultimo album della band, Made In Heaven, utilizzando le ultime interpretazioni vocali di Freddie.

È incredibile come lui sia stato capace di lasciarci con così tanto materiale con cui lavorare. C’è tanto di Freddie in quell’album, e per la maggior parte del tempo sembrava fosse davvero in studio con noi. Non in modo stucchevole, ma con un senso di gioia. Era come “Cosa ne pensi di questo, Fred? Oh, OK”. Sembrava come se fosse lì con noi. Credo che quello sia l’album migliore che abbiamo fatto come Queen. Ci riassume alla perfezione.

Quell’album contiene l’ultima canzone scritta da Freddie, A Winter’s Tale, con le parti vocali che lui registrò appena due settimane prima di morire.

Freddie scrisse quella canzone a Montreux, nella piccola casa sul lago che noi chiamavamo The Duck House. La cosa straordinaria è che lui parla della vita e di quanto sia bella nel momento in cui sa che non gli resta molto da vivere, tuttavia non si lascia andare alle emozioni, ma è come se guardasse dall’esterno. È questo il modo in cui volevo fosse il mio assolo. Fu uno di quei momenti in cui potevo sentirlo nella mia testa, molto prima di suonarlo per davvero. E quando l’ho messo su nastro, nel mio studio di casa, nella mia testa io ero a Montreux con Freddie, anche se stava succedendo tutto dopo la sua morte.

Deve essere dura ascoltare queste canzoni, e quelle di Innuendo, l’ultimo album realizzato quando Freddie era ancora in vita.

Sì, ascolti queste canzoni e ti rendi conto di quanto Freddie soffrisse, ed è davvero dura. Ma sai, tutti moriremo prima o poi, e quei momenti sono preziosi, i momenti in cui la creatività fluiva libera e ci perdevamo nella musica, quindi adoro ascoltare ora quelle canzoni. Ho chiuso il cerchio. Non cerco più di scappare dai Queen.

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Al contrario, tu e Roger Taylor avente portato avanti la band, prima con Paul Rodgers, ed ora con Adam Lambert.

Adam è fantastico. Lui è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. Con lui, la macchina gira perfettamente.

Voi lo chiamate Madame Lambert…

A lui non importa. “Oh, per me va bene”, dice.

Avete inciso l’album The Cosmos Rocks come Queen + Paul Rodgers. Potrebbe esserci un altro album dei Queen con Lambert?

Ne abbiamo parlato, ma non siamo andati oltre questo. È possibile. Mai dire mai.

A meno che tu non sia John Deacon, che si è ritirato a vita privata nel 1997 e non ha giocato alcun ruolo nella successiva reunion dei Queen.

Penso sempre a John perché, ovviamente, non lo vedo mai. Non parlo mai con lui perché è una sua scelta. Ma mi chiedo sempre quale strada il suo spirito gli abbia fatto intraprendere.

Non hai mai pensato alla pensione?

Oh no! credo che la pensione sia una cosa terribile. L’ho visto accadere alle persone quando queste hanno perso la loro motivazione. È orribile. Sono sicuro che lavorerò fino al giorno della mia morte.

Ed ora, se ti guardi indietro, hai qualche rimpianto?

No, ho un atteggiamento abbastanza fatalista. Credo che tutto ciò che ho fatto, e tutto ciò che mi è successo, mi ha portato ad essere quello che sono. E sono vivo, sono molto fortunato, ho una splendida famiglia, ho una moglie meravigliosa, amo la mia carriera, e riesco ancora ad essere creativo. Quindi no, non ha senso per me avere rimpianti. Abbiamo parlato di depressione, e continuo ad avere una relazione duratura con la depressione. È sempre qui. Ma ciò che mi tiene a galla è sapere che c’è tanto per cui essere grato. È solo un sentimento. Non è molto utile come spiegazione. Devi viverlo. Quindi, ci sto ancora lavorando.

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